Il mistero dei fulmini: cosa scatena davvero ogni lampo?

Un’indagine tra scienza e spazio: dai raggi gamma nei temporali ai fulmini artificiali nei laboratori, ecco cosa (forse) accende le scariche più potenti della Terra

Ogni giorno, la Terra viene colpita da oltre tre milioni di fulmini. Secondo il Met Office del Regno Unito, si verificano circa 44 scariche elettriche ogni secondo. Nonostante secoli di osservazioni e progressi scientifici, la causa esatta dell’innesco di un fulmine rimane un enigma. Da Benjamin Franklin con il suo famoso aquilone nel 1752 fino ai voli spaziali moderni, la ricerca sulle origini di questo fenomeno affascinante non si è mai fermata. Di recente, nuove indagini che includono l’uso di aerei spia dell’era della Guerra Fredda e satelliti hanno aggiunto pezzi fondamentali al puzzle. Ma il mistero centrale è ancora aperto: cosa innesca esattamente un fulmine?

Nel corso degli anni, abbiamo compreso che i fulmini rappresentano una scarica di energia elettrica su larga scala, che può viaggiare verso il suolo, rimanere tra le nuvole o salire verso lo spazio. Questa carica si accumula quando particelle di ghiaccio, acqua e grandine si scontrano nel cuore turbolento di una nuvola temporalesca, generando elettricità statica. Le particelle leggere e positive salgono verso l’alto, mentre quelle più pesanti e negative scendono. Il risultato è un campo elettrico intenso tra la base della nube e la superficie terrestre.

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Un cavo tra cielo e terra

Nel momento in cui questo campo supera una soglia critica, si apre un canale altamente conduttivo: “È molto sottile, caldissimo e conduce elettricità in modo straordinario. Si comporta quasi come un filo all’interno della nuvola”, spiega David Smith, professore di scienze atmosferiche e astrofisica presso l’Università della California, Santa Cruz.

Anche se siamo più abituati a osservare fulmini che colpiscono il suolo, in realtà circa il 75% delle scariche avviene all’interno delle nuvole, dove il campo elettrico è molto più intenso. Tuttavia, nonostante questi dati, la domanda cruciale resta: come si innesca il primo scatto?

Un mistero nascosto tra le nuvole

Studiare i fulmini è difficilissimo, perché si formano in ambienti inaccessibili. “Succede all’interno delle nuvole, che sono ambienti ostili e opachi”, spiega Smith. Gli aerei convenzionali non possono penetrare le nubi tempestose e volare sopra di esse è altrettanto complicato. Inoltre, gli stessi mezzi di rilevazione possono alterare l’equilibrio elettrico delle nuvole. “Un aereo è un grosso pezzo di metallo e può interferire con le condizioni che vogliamo studiare”, sottolinea.

Per aggirare queste difficoltà, gli scienziati si affidano a metodi indiretti come l’interferometria radio, che rileva le onde radio emesse dai movimenti delle cariche elettriche. Con questa tecnica, è possibile localizzare le scariche all’interno delle nuvole con una precisione di pochi metri. Tuttavia, non spiega cosa accende la miccia.

Quando il fulmine nasce in laboratorio

Un altro approccio consiste nel ricreare i fulmini in ambienti controllati. “La forza del laboratorio è la ripetibilità”, afferma Daniel Mitchard, fisico delle particelle al Lightning Laboratory dell’Università di Cardiff. Grazie a strumenti ad alta precisione, si possono misurare parametri impossibili da rilevare in un temporale naturale, come la temperatura e l’energia della scarica. Ma anche in laboratorio i fulmini restano pericolosi: “Non possiamo avvicinarci. La scarica può accecare, è assordante e tutto avviene in una stanza schermata”, dice Mitchard.

Soltanto negli ultimi trent’anni è stato possibile studiare i temporali dall’alto, grazie a shuttle spaziali e satelliti. Questo ha aperto nuove strade nella ricerca, in particolare riguardo ai raggi gamma generati dalle tempeste.

L’enigma dell’avalanche di elettroni

L’aria è un ottimo isolante, e perché si formi un fulmine serve un campo elettrico enorme, capace di superare il cosiddetto “breakdown threshold”. Tuttavia, le misurazioni nei temporali non raggiungono mai questi valori. “Milioni di fulmini al giorno e mai un campo elettrico abbastanza forte per farli scattare? È uno dei più grandi misteri delle scienze atmosferiche”, dice Joseph Dwyer, fisico all’Università del New Hampshire.

Una spiegazione possibile è che questi campi elettrici esistano in piccole sacche della nuvola, invisibili ai sensori, oppure che l’attrezzatura li scarichi prima ancora di registrarli. Un’altra ipotesi è che i cristalli di ghiaccio possano amplificare localmente il campo, innescando piccole scariche che si fondono tra loro creando il canale del fulmine.

Sempre più esperti però credono che serva una scintilla iniziale proveniente dallo spazio: i raggi cosmici. Questi potrebbero accelerare elettroni liberi quasi alla velocità della luce. Una volta lanciati, questi elettroni urtano altri atomi nella nuvola, liberando altri elettroni in una reazione a catena: un’avalanche di particelle ad alta energia, spiega Smith.

Fulmini radioattivi: i lampi di raggi gamma

Negli anni ’90, satelliti della NASA hanno scoperto i lampi gamma terrestri (TGF): brevissimi impulsi di raggi gamma provenienti dai temporali. “Sono così intensi che accecano temporaneamente i satelliti in orbita bassa”, spiega Dwyer.

Questi TGF sembrano legati all’attività elettrica dei temporali, e potrebbero rappresentare la conferma dell’avvio ad alta energia del fulmine. In parole povere: dove c’è TGF, c’è un campo elettrico potente. Oltre ai TGF, gli scienziati hanno rilevato anche gamma-ray glows, cioè emissioni meno intense ma più durature, della durata anche di minuti. La relazione tra questi fenomeni e i fulmini è ancora poco chiara.

Caccia al lampo dallo spazio: la missione norvegese

Nel 2023, l’Università di Bergen (Norvegia) ha lanciato una missione audace per indagare più da vicino questi fenomeni. Usando un vecchio aereo spia dell’era della Guerra Fredda, oggi convertito da NASA in laboratorio volante (ER-2), i ricercatori sono volati sopra le nubi temporalesche dei Caraibi, raggiungendo 20 km di altitudine, ben oltre quanto mai fatto prima.

Durante il volo, hanno rilevato bagliori gamma molto più deboli di quelli osservati dai satelliti, ma con dettagli mai visti prima. Grazie a un sistema di telemetria a bassa risoluzione in tempo reale, hanno guidato il pilota verso i punti più attivi, seguendo le scie di raggi gamma. Hanno così scoperto un’enorme nube temporalesca che emetteva raggi gamma per ore, pulsando come un pentolone in ebollizione.

La scoperta del lampo gamma intermittente

Ma la scoperta più interessante è stata quella dei flickering gamma-ray flashes: fenomeni intermedi tra TGF e gamma-ray glow. Durano più dei primi ma meno dei secondi, e sembrano direttamente collegati ai fulmini. “Dopo questi lampi intermittenti, abbiamo osservato intensa attività elettrica”, conferma Nikolai Østgaard, fisico spaziale dell’Università di Bergen.

La vera scintilla iniziale, secondo i modelli, potrebbe essere un processo di feedback positivo innescato dalla produzione di positroni (le antiparticelle degli elettroni) durante l’avalanche. Questi positroni generano altre valanghe elettroniche e modificano il campo elettrico della nube, abbassandolo in un punto e alzandolo in un altro: “È come premere un rigonfiamento nel tappeto: lo abbassi in un punto, ma si alza altrove”, dice Dwyer.

Verso la comprensione completa del fulmine

La squadra norvegese è già al lavoro per un nuovo volo, dotando l’ER-2 di strumenti ancora più sensibili. L’obiettivo: capire se questi lampi gamma intermittenti siano davvero la miccia che accende i fulmini.

Ma, come spesso accade nella scienza, ogni risposta porta con sé nuove domande. E il mistero più antico della Terra continua a sfuggirci di mano, affascinante e carico di elettricità.

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