Indice
- 1 Rischi ambientali, licenze mai pubblicate e la protesta ignorata di migliaia di persone
- 2 Tecnologia estrema e rame al 12%: cosa succede sotto la superficie
- 3 Il silenzio dei governi e la licenza mai pubblicata
- 4 La protesta: “Siamo cavie. Nessuno qui usa auto elettriche”
- 5 Chi finanzia davvero il progetto Solwara 1?
- 6 I rischi ambientali del mining oceanico
- 7 Una corsa globale al fondale marino, ma la legge resta indietro
Rischi ambientali, licenze mai pubblicate e la protesta ignorata di migliaia di persone
Nel cuore del Mar di Bismarck, nelle acque territoriali della Papua Nuova Guinea, una nave danese sta scavando il fondale oceanico per raccogliere metalli preziosi. La MV Coco, un’imponente imbarcazione da 4.000 tonnellate lunga 270 piedi, ha avviato le operazioni nel giugno 2023, usando un artiglio idraulico da 12 tonnellate per estrarre depositi ricchi di rame e oro. Il progetto è portato avanti da Deep Sea Mining Finance (DSMF), subentrata alla fallita Nautilus Minerals, titolare della contestata licenza Solwara 1.
A bordo della nave, l’unico giornalista presente ha potuto documentare da vicino la trasformazione del fondale marino in un cantiere minerario sottomarino. L’obiettivo dichiarato era testare le condizioni fisiche e ambientali necessarie per l’estrazione su larga scala. Ma ciò che ha visto ha sollevato domande inquietanti: chi sapeva davvero della presenza della nave? Perché venivano accumulati sedimenti sul fondale? E, soprattutto, quali rischi sta correndo uno degli ecosistemi più delicati del pianeta?
Tecnologia estrema e rame al 12%: cosa succede sotto la superficie
Sulla Coco tutto è all’avanguardia. Nel cuore del ponte posteriore, all’interno di un container metallico convertito in sala comandi, un giovane brasiliano, Afhonso Perseguin, manovra un ROV (veicolo telecomandato) con precisione millimetrica. Le telecamere mostrano una distesa grigia punteggiata da camini idrotermali e conchiglie. Una chela robotica si dirige verso il fondo, afferra una roccia e la solleva. I denti dell’artiglio si chiudono, sollevando sedimenti in una nube spessa che oscura per minuti la visione.
Una volta in superficie, il carico viene depositato su una bilancia industriale. Ma non sempre tutto arriva: frammenti si perdono durante la risalita e nuvole di silt si spargono per miglia. Lo scienziato australiano Josh Young e la sua collega Nicole Frani, incaricati di monitorare l’impatto ambientale, raccolgono campioni a varie profondità tramite tubi Niskin per misurare ossigeno, torbidità, acidità, salinità, densità. “We’re trying to understand how it can affect the sea life below”, spiega Frani.
Ma il dato più impressionante arriva dal laboratorio a bordo: la concentrazione di rame tocca il 12,33%, come confermato dal geologo Paul Lahari tramite uno spettrometro a fluorescenza. “That’s 10 times more than we get on land”, ha detto, visibilmente entusiasta.
Il silenzio dei governi e la licenza mai pubblicata
Dietro l’euforia tecnica si cela però una preoccupante opacità istituzionale. Secondo Peter Bosip, avvocato del Centro per il Diritto Ambientale della PNG, la licenza mineraria e il permesso ambientale rilasciati alla Nautilus nel 2011 non sono mai stati resi pubblici, in violazione del principio costituzionale di trasparenza. Dopo il fallimento della Nautilus nel 2019, la licenza è passata alla DSMF, che ha rilanciato il progetto coinvolgendo la Magellan e una nuova società, SM2.
Il governatore dell’isola di New Ireland, Julius Chan, ha dichiarato: “Those involved in Solwara certainly do not have my government support and approval”, definendo la presenza della Coco “illegal”. Ma il governo centrale tace: il direttore dell’Autorità Mineraria, Jerry Garry, raggiunto via videochiamata, ha ammesso di non essere a conoscenza della presenza della Coco nel Mar di Bismarck. Da quel momento, non ha più risposto alle chiamate del giornalista.
La protesta: “Siamo cavie. Nessuno qui usa auto elettriche”
Appena sbarcato, il giornalista ha raggiunto il villaggio di Kono, dove ha incontrato Jonathan Mesulam, portavoce dell’Alleanza dei Solwara Warriors, movimento che da anni si oppone all’estrazione marina. Dopo aver ascoltato il resoconto delle attività della Coco, Mesulam ha reagito con sgomento e rabbia: “People are surprised—they are shocked… We thought it was a dead issue now”. E aggiunge: “These metals will not benefit anyone from here because nobody here is using electric cars”.
Alla riunione pubblica del villaggio, presieduta dal capo Chris Malagan, molti abitanti hanno espresso il timore che la pesca, unica fonte di sostentamento, venga compromessa in modo irreversibile. “We don’t want to be used as guinea pigs for trial and error”, ha ribadito Mesulam.
Chi finanzia davvero il progetto Solwara 1?
Nel complesso intreccio geopolitico-finanziario della DSMF compaiono nomi controversi. La società è finanziata da due tra i principali investitori globali: l’oligarca russo Alisher Usmanov, vicino a Putin e oggi sottoposto a sanzioni internazionali, e l’imprenditore omanita Mohammed Al Barwani, che controlla aziende nel settore petrolifero e minerario.
Secondo documenti legali canadesi, gli amministratori del progetto sono Christopher Jordinson, condannato per insider trading, e Matthias Bolliger, in seguito interdetto dalla carica di direttore nell’Isola di Man. Il sito ufficiale della DSMF è stato rimosso e sostituito con quello di una nuova entità: Sustainable Mining Solutions (SMS), che afferma che i benefici per la popolazione locale sono “currently being negotiated”.
I rischi ambientali del mining oceanico
Nonostante gli slogan ottimistici, l’impatto ambientale resta incerto. Secondo la biologa marina Lisa Levin della Scripps Institution: “It couldn’t possibly be [the same ecosystem after mining]. People have to be willing to give up the seafloor ecosystems if they want to mine them.” Le attività minerarie potrebbero portare all’estinzione di specie esclusive dei camini idrotermali, mentre sedimenti tossici, rumore e inquinamento luminoso potrebbero danneggiare anche le zone di pesca aperta.
Uno studio giapponese su un progetto analogo ha mostrato che alcuni organismi impiegano anni per ripopolarsi, mentre altri scompaiono del tutto. Tuttavia, la SMS continua a sostenere che, “three years after mining ends, the environment will resemble the pre-mining condition”. Un’affermazione fortemente contestata dagli scienziati.
Una corsa globale al fondale marino, ma la legge resta indietro
Nel frattempo, anche altri Paesi si sono mossi: Norvegia, Giappone, Isole Cook e Svezia hanno autorizzato progetti minerari nelle loro zone economiche esclusive. La International Seabed Authority (ISA), l’ente ONU incaricato di gestire i fondali internazionali, ha già concesso oltre 30 licenze esplorative. La nuova segretaria generale, l’oceanografa brasiliana Leticia Carvalho, ha promesso di concludere entro il 2025 il codice globale per l’estrazione sottomarina.
Ma il rischio è che l’industria preceda la scienza. Come ha scritto DSMF nella sua nota: “Extensive scientific studies have enabled SMS to assess the risks to marine ecosystems”. Eppure il vuoto normativo, la mancanza di trasparenza e il disinteresse delle autorità locali fanno pensare che i fondali dell’oceano stiano diventando terra di nessuno, dove si sperimenta senza consenso.
A cura di Roberto Zonca